Le tecniche artistiche antiche

Luogo: Casole d’Elsa

Comune: Casole d’Elsa

Data/periodo: 1300 – 1520

Descrizione: Realizzare un polittico era un’operazione lunga e complessa, che necessitava del concorso di competenze diverse e di particolari specializzazioni. Il capo bottega organizzava il lavoro, sceglieva il legno, ideava l’opera, la disegnava e realizzava le parti più difficile come per esempio i volti. Per la preparazione della tavola, delle colle, dei colori, della foglia d’oro, delle stesure marginali, il pittore si avvaleva di collaboratori a vari livelli e di garzoni che contribuivano a portare avanti più lavori avviati dall’artista. La bottega era anche una scuola dove si imparava il mestiere e, per essere avviati alla pratica artistica, si iniziava con l’esercizio del disegno, perché come ricordava Cennino “el fondamento dell’arte […] è il disegno el colorire”. Cennino Cennini artista originario di Colle di Val d’Elsa, verso la fine del Trecento scrisse una preziosissima guida per i pittori intitolata Il libro dell’Arte. In questo testo fondamentale egli codificò i procedimenti delle antiche tecniche artistiche, in particolare della pittura su tavola e dell’affresco, che aveva avuto modo di apprendere negli anni del canonico apprendistato, nella bottega tardo giottesca di Agnolo Gaddi.

Nel museo e nella collegiata di Casole d’Elsa si possono apprezzare numerosi affreschi e dipinti a tempera su tavola.

Pittura su tavola

Quando un pittore del Trecento riceveva la commissione di un dipinto su tavola, ovvero di un’ancona per usare un termine di Cennino Cennini, si procurava una serie di tavole (generalmente quelle mediane) di legno dolce e ben stagionato. Successivamente le tavole venivano segate, piallate e unite inserendo dei pioli negli spessori del legno e fissando nella parte posteriore, delle traverse orizzontali bloccate da incastri lignei. Sulla tavola vergine si incollavano le numerose porzioni di intagli che andavano a formare la cornice. Si procedeva rimuovendo i nodi del legno e riempiendo gli incavi con colla di spicchi mescolata alla segatura, poi con un pennello di setole grosso e  morbido si davano più mani di colla di spicchi sulla superficie lignea. A questo punto la tavola era pronta per essere impannata e ingessata. Per impannare la tavola era innanzitutto necessario far sciogliere per alcune ore i grani di colla di coniglio in acqua, si otteneva così un composto gelatinoso, che riscaldato a bagnomaria diventava colla liquida, in essa si bagnava un vecchio panno di lino, che successivamente si stendeva sulla superficie lignea. Lo strato di imprimitura si preparava aggiungendo il gesso alla colla di coniglio, fino a ottenere un impasto consistente quanto bastava, per stendere una mano con un pennello di setole su tutta la superficie lignea. Quando la preparazione risultava ben asciutta si davano ben sette mani dell’impasto di colla e gesso. L’imprimitura ben asciutta veniva levigata con l’ausilio di una rasiera. Anche la cornice, come il resto della tavola, veniva impannata, ingessata e successivamente dorata.

Passando alla realizzazione della superficie pittorica si procedeva tracciando il disegno sull’imprimitura con carboni di salice e raffermando il tratto con un pennellino di vaio intinto nell’inchiostro. Si passava poi a ombreggiare il disegno con acquarello d’inchiostro per dare luce e rilievo a volti e ai panneggi. Prima di procedere con la doratura dello sfondo, venivano incisi i contorni della figura. Sulle porzioni destinate alla doratura si stendevano varie mani di bolo: una terra rossa amalgamata a colla di pesce sciolta a bagnomaria. Il fondo della tavola veniva coperto da tante sottilissime foglie d’oro tagliate a quadratini su un cuscinetto di cuoio e applicate con l’ausilio di due pennellesse di tasso sul bolo bagnato con acqua, da questa tecnica deriva la specifica definizione di  “doratura a guazzo”  che si distingue dalla “doratura a missione” con la foglia d’oro applicata su una sostanza collosa. La prima veniva impiegata per realizzare gli ampi sfondi dorati, la seconda era utilizzata maggiormente per le decorazioni come le lumeggiature dei panneggi. L’oro successivamente veniva brunito sfregando la superficie con la pietra d’agata e spesso anche punzonanto, ovvero in successione veniva premuta sulla superficie una punta metallica con un motivo decorativo inciso al negativo, come nel caso delle aureole dei santi. Dopo la doratura si dipingevano gli sfondi, le vesti e gli oggetti. I pigmenti ridotti in polveri finissime, puri o mescolati tra loro venivano legati con tuorlo d’uovo e diluiti con acqua. Infine, si dipingevano gli incarnati stendendo uno strato di verde terra e biacca. Le velature successive si realizzavano con tre tonalità di cinabrese mescolato con la biacca, stando attenti a non coprire del tutto le ombreggiature del verdeterra. Infine si biancheggiava “a poco a poco sopra le ciglia, il naso e le labbra” e con una punta di nero si ritoccavano “gli occhi, le narici, le ciglia e qualche pelo”.

L’affresco

La tecnica dell’affresco è molto più rapida ed essenziale della pittura su tavola e ben si adatta a decorare le grandi superfici murali anche esterne di chiese e palazzi. Grazie a un processo chimico chiamato carbonatazione (l’idrato di calcio dopo aver avvolto i colori, reagisce con l’anidride carbonica e si trasforma in carbonato di calcio), i pigmenti stesi ad affresco diventano forti e duraturi nel tempo, capaci di resistere anche all’azione di normali agenti atmosferici.

L’artista iniziava la sua opera preparando il muro bagnato e stendendo su di esso uno strato di intonaco chiamato arriccio: un composto grossolano ottenuto dalla mescolanza di sabbia, pietrisco, calce spenta e acqua. Dopo che l’intera superficie era stata ricoperta dall’arriccio il pittore “batteva il filo” per definire gli spazi riservati alle scene figurate, alle cornici…. Il pittore passava poi a disegnare col carboncino le figure sull’arriccio, i tratti venivano ripassati a pennello con un colore rosso sinopia. Appena il colore era asciutto si spazzava via il carboncino con delle penne. Negli anni il termine sinopia ha assunto il significato di disegno murale preparatorio dell’affresco.

Il pittore procedeva coprendo il disegno con una porzione limitata (la giornata) di intonachino (impasto di calce e sabbia sottilissima amalgamati in parti uguali dall’acqua), che subito (prima che seccasse) iniziava a dipingere con pigmenti disciolti in acqua. Per essere un “buon fresco” la lavorazione della così detta giornata, doveva terminare prima che la porzione dell’intonachino steso asciugasse.

Bibliografia:

Cennini C., Il libro dell’arte, a cura di Brunello F., Vicenza, Neri Pozza Editore, 2001

Autore scheda: Patrizia La Porta

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