Non ho più posto

Luogo: Radda in Chianti

Comune: Radda in Chianti

Data/periodo: Ella arriva in Italia dal Perù nel 1998. Pochi giorni dopo il suo arrivo, si trasferisce a Radda in Chianti

Descrizione: Ella è una persona che ride. È come se possedesse un corpo intero capace di ridere. Eppure ha avuto una vita “terrible, muy muy dura”, come ripete spesso durante la nostra chiacchierata:

Io sono del Perù, nata nel 1957. Sono arrivata qui nel 1998, in Italia, con un visto turistico. Ma già avevo l’intenzione di restare perché ormai sapevo che venivo per lavoro. Avevo una trentina di anni, ora ne ho cinquantasei. Però decisi così, di punto in bianco. In casa la situazione era tremenda e mi dissi che qualcuno doveva fare qualcosa: guardandosi in faccia non si risolve nulla. Eravamo tanti, capito? Sicché dovevo fare qualcosa. Non avevo nessun impegno sentimentale, niente di che. I genitori non li avevo perché io sono orfana da quando io avevo cinque anni. Siamo rimasti soli. Eravamo nove fratelli. La nonna aveva tante figlie, allora ci ha divisi fra le figlie. Qualcuno andò dalle zie, altri in orfanotrofi. Io con una mia sorella eravamo in un orfanotrofio, altri due fratelli in un altro orfanotrofio. Divisi come cani. È stata dura, dura, non te lo puoi nemmeno immaginare.

Sono entrata in orfanotrofio che avevo sei anni. Sono uscita che ne avevo sedici. Tutta la mia infanzia. Insieme a mia sorella. Dopo la mia nonna è morta e noi siamo cresciuti e abbiamo voluto uscire da questo orfanotrofio e siamo uscite. Siamo andate a stare con queste zie. Poi è stata dura dura dura dura dura dura. Ho lavorato finché mi è preso il pallino che dovevo partire. Mia sorella, quella con cui ho condiviso tutta la vita in orfanotrofio, si è sposata, ha avuto due figlioli meravigliosi che adoro e che sono come due figlioli per me, però poi si è ammalata. Aveva quarantasei anni e già le avevano fatto quattro by-pass ed è morta. Ma quando lei stava male ho detto: “Questi ragazzi che sono piccoli devono studiare. Non devono subire quello che abbiamo vissuto noi. Qualcuno deve fare qualcosa. Io vado via”.  Tutti mi dicevano che ero matta: “Dove vai? Non parli le lingue”. Io dovevo andare via. Perché io l’ho fatto per i miei nipoti sai? E quando sono arrivata qui è stata dura dura nel principio.

A me tutto mi è venuto così, per caso. Una mia amica aveva una sorella in Italia e mi ha detto che stava bene, che ci viveva bene. “Come fo io ad andare in Italia? Come fo?”, mi chiedevo.

Avevo un fratello, in quel momento, che era emigrato in Honduras. Ho saputo che in Honduras davano facilmente il visto per l’Italia. Mi sono licenziata dal lavoro di punto in bianco, dopo diciassette anni nel negozio, perché ho capito che dovevo andarmene, per i miei nipoti. Mi era entrato il pallino che dovevo uscire dal paese. Ero proprio decisa.

Ho contattato mio fratello Amilcare, che stava in Honduras, e gli ho detto che avevo delle giornate di vacanza e sarei andata a trovarlo per vedere i posti dove viveva. Mi ha fatto l’invito. L’Honduras è un paese terribile! Parli con la pistola invece che col cellulare. Sono arrivata in Honduras e ho detto: “Ora sì, io da qua non mi muovo, portami al Consolato d’Italia e faccio il possibile per andare in Italia”. “Tu sei matta”, mi ha detto mio fratello, “non ti danno il visto qui se non sei hondureña”. “Io farò tutto il possibile”, risposi. Mi presentai all’Ambasciata d’Italia in Honduras e fra il dire e il fare mi dettero il visto. Una cosa incredibile. Nemmeno mio fratello poteva crederci.

Tornai a casa, salutai i miei fratelli, salutai tutti. Piangevano dicendo: “Ma dove vai, non conosci la lingua… se non ti va bene in un mese torna…”. Io dentro di me dicevo: “No davvero! So che mi troverò con tutte le difficoltà del mondo ma io voglio dare tranquillità a mia sorella, darle pace”. Mia sorella poi è morta nel 2002, ma in quei quattro anni che è stata in vita dopo l’intervento l’ho fatta stare tranquilla, le ho fatto fare una bella vita. Io mandavo a casa i soldi, e lo facevo con tutto il cuore.

Sono partita da Lima e sono arrivata a Roma Fiumicino. Non mi arrivò la valigia. Mi chiesero un indirizzo e mi dissero che mi avrebbero portato la valigia. Ma io non avevo indirizzi da dare. Non avevo nemmeno l’indirizzo. All’aeroporto ho trovato una persona del Perù che viveva a Roma: mi ha affittato un posto letto per una notte a diecimila lire. Ho aperto il portafoglio e gli ho detto di pigliare lui i soldi perché io non capivo niente delle lire, non sapevo come erano fatte. Quella notte dormii da loro. Alla mattina dopo sono andata all’aeroporto e la valigia era arrivata. Ma in quel momento non mi interessava nemmeno la valigia.

Una vicina di casa di Lima aveva la parente in Italia. Avevo il suo numero di telefono e l’ho chiamata. Stava a Firenze. Dall’aeroporto ho preso un taxi per andare alla stazione. Io non parlavo nemmeno una parola di italiano. Il taxista mi ha detto che mi avrebbe messo sul treno per Firenze. Siamo arrivati alla stazione di Roma, lui è sceso dal taxi, mi ha comprato il biglietto.

La signora peruviana che avevo contattato mi aveva chiesto di incontrarci alla farmacia della stazione di Firenze. Il 3 di agosto del 1998, stazione di Firenze: turisti, gente, movimento. Mai vista così tanta gente. Arriva questa ragazza, mi dice che le devo pagare l’affitto. Io avevo un pò di soldi della liquidazione del lavoro, un pò di dollari nascosti nei vestiti. Avevo paura, era tutto quello che avevo. Il mio pallino era cercare lavoro e imparare l’italiano. Questa signora mi porta a casa sua, vicino al cinema La Vittoria. Erano venti in quell’appartamento, tutti peruviani. Sono andati in una cantina, hanno preso un materasso muffoso e l’hanno buttato per terra. E io sai che ho fatto? Ho dormito su quel materasso muffoso!

Quei peruviani mi hanno detto che per trovare lavoro dovevo andare alla Caritas di Firenze, vicino a piazza san Lorenzo. Tutte le mattine mi alzavo alle cinque per andare alla Caritas sperando di trovare lavoro e dopo quindici giorni mi stavano finendo i soldini e alla Caritas mi dicono: “Guarda, c’è un lavoro per te, non gli importa che non parli e che non abbia documenti ma hanno bisogno di una persona. Ma non è qui, devi andare a Radda. C’è un pullman, è un’ora di viaggio”.

Sono arrivata a Radda e sono entrata in un bar: il proprietario parlava spagnolo e gli ho detto che cercavo quell’indirizzo e quella famiglia. Questo signore è uscito dal lavoro, mi ha praticamente presa per mano e mi ha portata alla porta della casa di questa famiglia. Questa famiglia aveva bisogno urgente perché c’era una persona anziana messa male e loro erano una coppia di fiorentini abituati a viaggiare. Dovevano trovare una persona che stesse con questa nonna per continuare a viaggiare. Io non avevo mai assistito anziani. Mi hanno spiegato come si metteva il pannolone e come dovevo cucinare e sono partiti. Mi avevano detto di non farmi vedere perché non avevo i documenti. Io avevo un visto turistico. Questo non mi piaceva. Io sono qui per lavorare!

Dopo piano piano ho iniziato a vedere il paesino, che era piccolino. Quando la nonna era a letto e dormiva veniva una parente della nonnina che mi diceva: “Vai fuori, vai a fare un giro, vai via, rimango io con la nonna”. Che carina. Ora non c’è più. Mi diceva che dovevo uscire la domenica… ma dove vado io la domenica? Non conoscevo nessuno. Allora pigliavo un sacchettino, mettevo qualcosa in tasca, un cracker, un fruttino e facevo il giro da panchina a panchina, sola. È terribile sai? E poi non mi piaceva quella situazione di dire che mi dovevo nascondere e sai che ho fatto? Ho preso il passaporto e sono andata dai carabinieri: “Io sono questa, sto lavorando in quest’indirizzo, con questa nonna. Io sono venuta qui per non fare altro che lavorare”. “E sai che si fa?” mi ha detto il carabiniere, “mi faccio la fotocopia del tuo passaporto e tu lavora tranquilla. Non vogliamo che la gente venga a delinquere, a prostituirsi, ma se tu vieni a lavorare, fai pure”. Quindi gli ho chiesto se io potevo girare tranquillamente per Radda. “Per carità del cielo, sì!” mi disse. Lo feci. Nonostante loro mi dicessero di non uscire, di non farmi vedere più di tanto. Ma uno non può stare nascosto.

Le prime persone che ho conosciuto sono state i parenti di questa nonnina e i parenti di quello che ora è mio marito. Perché io arrivai ad agosto, poi arrivò ottobre e io non avevo niente da mettermi. Un freddo della Madonna. Mi avevano detto di non portare niente di pesante, nella valigia, sennò si sarebbero resi conto che avevo l’intenzione di restare. Quindi avevo tutto leggero. Meno male che la parente di quello che ora è mio marito ha una figliola più o meno del mio peso e mi diede i vestiti che lei non voleva più. Com’ero contenta!! Avevo golf e vestiti pesanti. È stato terribile!

Poi questa nonna che io assistevo è morta. La cugina del mio attuale marito – quella che mi aveva dato i vestiti invernali della figlia – mi propose di lavorare per una sua prozia, la signora Teresa, che era diabetica e le avevano appena amputato due dita. Come ero contenta io! [di avere un lavoro]. Vivevo con loro, mi davano una stanza. Per me era tanto. Ancora mi ricordo di quando sono passata dalla situazione a Firenze – durata quindici giorni – alla situazione di quando sono venuta qui, da quella prima vecchietta e mi hanno dato una stanza… io piangevo dalla gioia… dalla contentezza…

Iniziai ad assistere la signora Teresa e conobbi suo figlio, un ex-direttore di posta gentilissimo e serio. Lo conosco da quando sono arrivata, praticamente, dal ‘99. Però era un rapporto di lavoro. Ma nel 2003 la sua mamma muore, a novantatre anni. L’ho assistita con tutto il cuore, ma era messa male, poverina. Io assisto con il cuore. Dopo che morì dissi al figlio che me ne andavo, perché non avevo più lavoro da loro, anche se in realtà non sapevo dove andare! E lui mi ha detto: “No tu non vai via, tu rimani, stai insieme a me”. A me non era passato neanche per l’anticamera del cervello! Lì si è dichiarato, dopo la morte della mamma. A me è stato come se mi fosse cascato addosso un secchio d’acqua fredda. Non me l’aspettavo. E gli ho detto che ci avrei pensato, ero sconvolta. Dopo ci ho pensato e ripensato e mi sono detta che ero sola, qui, come un cane, e lui è solo. Poi è una persona tranquilla, più di così non si può, piano piano da cosa sarebbe nata cosa… perché non ti posso dire che da subito io ero innamorata! Poi tu hai bisogno di una persona che ti affianchi, perché tutta sola in un paese straniero… devi essere forte per partire, perché hai quella cosa dentro che dice che devi farlo… Ma poi ho detto: “Perché no? Ha ragione, facciamo il possibile perché questa relazione funzioni”. Ed è stato lui che nel 2003 parlò con la direttrice della casa di riposo e mi fece entrare alla casa di riposo, appena mi sono arrivati i documenti. E da allora lavoro nella casa di riposo. Ci siamo fidanzati nel 2003 e ci siamo sposati l’anno scorso.

Ho imparato l’italiano a casa della prima vecchietta che ho assistito, che tutti i pomeriggi si guardava “Ok il prezzo è giusto” e io mi mettevo con lei a vederlo. Con Iva Zanicchi ho imparato l’italiano. Cercavo le parole sul dizionario e poi quando andavo a letto mi riguardavo il quaderno, con le frasi e le parole appuntate. Con la televisione ho imparato tanto l’italiano. L’ho imparato in tre mesi. Chiedevo agli altri di correggermi. A Firenze, alla Caritas, c’era la scuola gratis per gli stranieri, nelle grandi città c’è, qui a Radda no. Allora imparai dalla tv! Non puoi immaginarti quanto è stata dura. Dura, dura, dura, dura.

A me piaceva Radda, dopo aver vissuto nella città. Lima è un mostro! La quantità di gente che c’è, la popolazione, la città stessa… è enorme Lima! Trovarmi in un paesino così per me era bello. Alcune amiche me lo chiedono come faccio a resistere qui… a me piace, mi conoscono tutti. “Ci credo!” dicono le mie amiche, “sono tutti pettegoli!”. Ma a me piace. All’inizio mi chiamavano “la mora”. “Ecco la mora!” dicevano. E io mi chiedevo cosa volesse dire “mora”. Oppure mi chiamavano “la Ricciolina”. “Ecco la Ricciolina!”. Era brutto perché io camminavo e poi facevo dieci passi e, apposta, mi giravo per vedere tutti che parlavano di me. Brutto.

La cosa più tremenda di questi anni è stato il non poter essere stata presente al funerale di mia sorella, perché era illegale. Ero qui con un visto turistico, dura novanta giorni. Poi sei illegale. Non potevo uscire. Ero qui, quando nel 2002 è morta mia sorella. È stata la cosa più spaventosa del mondo, la più tremenda: non la auguro nemmeno al mio peggior nemico. Non averle potuto dire niente. Spaventoso. Sarei andata a piedi. Ma io ero illegale. Dopo sono entrata con la sanatoria, la Bossi-Fini, meno male… dopo sei anni. Dal 1998 sono stata illegale fino al 2003. Terribile.

A me di qui mi piace tutto, ormai. La tranquillità con cui si vive, la serenità, la gente è molto calda, ci conosciamo tutti… è come una famiglia! Non posso fare due passi che mi fermano! Ho un’amica che mi viene a trovare da Firenze e mi ha detto che mi dovrei candidare a sindaco perché mi conoscono tutti, tutti. Io non ho la famiglia, quindi qui mi sento in famiglia, in una dimensione comunitaria.

La parte triste è che non ho più posto. Non ho più posto. Sono qui e mi manca la mia famiglia anche se li sento spesso e so tutto di loro. In tutti questi anni sono tornata in Perù due volte, ma entrambe le volte non vedevo l’ora di tornare qui… la confusione della famiglia, vengono tutti a trovarti, inviti qua e inviti là, il fuso orario… è una cosa allucinante! Ma meno male che poi ho trovato marito… ora i miei amici sono i colleghi di lavoro, chiacchiero con loro e mi svago perché con loro parlo! Oppure scappo di casa e vengo in paese a chiacchierare con qualcuno… trovo sempre qualcuno a Radda!

Ci salutiamo dopo un aperitivo e, tornando a casa, avverto un senso di pienezza. Il racconto di Ella è stato intenso e – nonostante la pesantezza di una vita difficile e dolorosa – illuminato da una dolcezza rara.

Bibliografia:

Pistacchi M. (a cura), Vive voci. L’intervista come fonte di documentazione, Roma, Donzelli, 2010

Audio:

Intervista ad Ella raccolta da Irene Barrese a Radda in Chianti l’8 giugno 2013

Autore scheda: Irene Barrese

 

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